Buongiorno readers,
è con piacere che oggi vi presento la bellissima tappa del blogtour
dedicato a Come un'onda che si tuffa sullo scoglio di Giorgio Bernard. In
questo appuntamento vi parlerò dei Personaggi
Ricordare è difficile.
Ề un piovoso mattino di inizio estate e uno sventurato turista fiorentino, col figlioletto stretto per mano e la caldaia di casa rotta, entra per disperazione più che per caso in un baretto desolato, l’unico disponibile nella microscopica località di villeggiatura che ha scelto per trascorrere le vacanze. Scopre che a mandare avanti il locale non è un barista qualunque, ma Roberto Tancredi, portiere della Juventus negli anni Settanta.
Intrappolato nel fitto mosaico di foto che sono incollate sulla bacheca del locale, ma soprattutto dalla dialettica fatta di parole roboanti e gestualità sanguigna del suo anfitrione, lo sfortunato villeggiante si trova catapultato dentro le istantanee che immortalano una vita: venti fotografie, venti titoli, venti partite: da “Scapoli-Ammogliati” dell’estate del Settantuno alla finale di Coppa delle Fiere della primavera precedente; da un afoso mattino di fine anni Cinquanta a un sonnolento match di fine campionato del Duemiladue.
Una galoppata frenetica attraverso i momenti cruciali di una vita, di molte vite, in cui il calcio non è che un’occasione iniziale, il titolo di un capitolo, iniziato e poi chiosato dal racconto in prima persona del padrone di casa, Tancredi, con la sua forza incontenibile di narratore e affabulatore… a partire dal prologo, “Riscaldamento” (però quello di cui si sta parlando non è il riscaldamento dei muscoli a inizio gara, quanto la caldaia collassata dello sciagurato turista), fino ad arrivare a “Zona Mista”, l’epilogo che non sta a identificare il punto dello stadio in cui i giocatori rilasciano interviste a fine partita, quanto piuttosto il quartiere di canteri ancora aperti nel cuore di Ibiza, dove Roberto Tancredi e Igor Protti ormai in là con gli anni, fumando sigari e bevendo rhum, stanno pianificando la loro fuga dalle serie dilettantistiche spagnole.
Un romanzo che racconta più di cinquant’anni di vita e storia italiana, descrivendo e demitizzando le icone che hanno contribuito a plasmare e poi inevitabilmente deludere tre diverse generazioni.
Roberto Tancredi: Il protagonista è visibile nel romanzo in una duplice veste e in due diversi contesti temporali. In apertura di romanzo (e a intervallare i diversi capitoli in cui è suddivisa la trama) egli è un attempato signore, che offre riparo a un turista e suo figlio dentro al bar di un paesino del litorale toscano e inizia a narrare in prima persona la sua storia. Il Roberto anziano è un uomo risolto, anche se non pienamente appagato, e, malgrado i rimpianti e le rimostranze che rivela ai suoi ospiti inattesi, sembra tuttavia aver trovato un equilibrio e una propria pace interiore. Il Roberto giovane, di contro, è un uomo taciturno e perennemente insoddisfatto, combattuto tra il bisogno di migliorarsi e una propensione istintiva a mettere tutto in discussione; è un carattere forte, tutto spigoli, con un suo marcato e non smussabile senso del giusto e dell’ingiusto, del torto e del diritto, che sarà il motivo principale dei suoi numerosi problemi di relazione e dei rovesci di fortuna che patirà nel corso del romanzo. Riporto qui di sotto un brano che può valere a identificarlo.
Oggi invece l’argomento era più tecnico: “Ci può dire quali sono i tre più forti giocatori del mondo, secondo lei?”
‘Pelé’ avevano risposto quasi tutti: ‘Overath’, ‘Moore’, Beckembauer’.
Difficile trovarne anche uno solo che non fosse perfettamente allineato.
Accanto a Roberto si allenava il giovane Montorsi: ciuffo di capelli scuri e basette folte, un talento cristallino, proveniente dal Mantova. Oltretutto si chiamava Roberto pure lui.
“E lei, signor Montorsi? Per lei qual è il giocatore più forte del mondo?”
“Boh… Pelè penso…” aveva risposto lui, continuando a fare la bicicletta: “…e poi anche il Jack Charlton, lui sì che è forte!”
“E poi? Riesce a dircelo un altro nome?”
Il ragazzo si era messo seduto, spalancando un sorriso che faceva star bene.
La Juventus lo ha preso a inizio stagione per fargli fare da riserva a Haller; giocherà sì e no una decina di minuti, guadagnandosi con la stampa la fama di svogliato e incostante, e tornandosene a Mantova due anni più tardi, ormai messo ai margini, fuori condizione, pronto per chiudere la carriera, malgrado la giovanissima età.
Roberto aveva incrociato il suo sguardo, sorridendogli di rimando, quando Montorsi aveva aperto bocca e dato fiato alle trombe.
“E poi c’è Tancredi!” aveva sentenziato, puntandogli contro un dito: “Tancredi è fortissimo!”
A Roberto era scappata una grassa risata.
“E per lei, signor Tancredi? Quali sono i giocatori più forti del mondo?”
“Beh… Montorsi, direi” aveva risposto, ancora ridendo.
Quelli di ‘Hurrà’ invece non ridevano, si vede che la battuta non l’avevano capita.
“E poi Pelé… Pelé senz’altro.”
“E il terzo? Ce lo può dare un terzo nome, signor Tancredi?”
Adesso era Roberto che si era fatto serio; guardava lontano, sembrava stesse facendo di sì con la testa.
“Chi è il terzo, Tancredi?”
“Il terzo è Franzon” aveva risposto lui, senza cambiare espressione: “Sicuramente Roberto Franzon”.»
Mariella Tancredi: La moglie del protagonista è la persona che gli resta accanto per tutta una vita, condividendone e cercando di addolcirne le delusioni, i dolori, mediando costantemente fra il mondo esterno e il carattere burbero e poco accondiscendente del marito. Si tratta di un personaggio dal carattere forte, battagliero, sempre positivo, apparentemente a proprio agio pure nei contesti sociali più sgradevoli e improbabili.
«“Certo che sì” aveva detto il luminare: “Guardi un po’ questa macchia quaggiù”
Quindi gli aveva piazzato sotto al mento il foglio nero della radiografia.
Roberto guardava, come gli era stato detto di fare, però non riusciva a veder niente. A parte un tondino un po’ più chiaro, nel centro esatto del polmone.
“È poco più grande di una monetina” aveva precisato il dottore, “Deve avercelo da un paio di annetti, ormai.”
“Sì, ho capito, dottore” aveva borbottato lui: “…ma che cos’è di preciso?”
“Questo non glielo so dire. Per essere sicuri bisognerebbe intervenire… e, dopo l’intervento, analizzarlo.”
Roberto aveva preso un respirone: dottori e operazioni non gli mettevano paura, figurarsi: era più indolenza la sua, non sopportava l’idea di perdere tempo in loro compagnia, ecco tutto.
“Guardi, Tancredi, che è una cosa da poco, una sciocchezza.”
“Che cosa?” aveva chiesto lui, risollevando lo sguardo sul volto lucido e smagrito del primario.
“Potremmo intervenire passando fra una costola e l’altra. E lei sarebbe di nuovo in piedi in un paio di mesi, forse anche meno.”
“No, io non posso” aveva tagliato corto Roberto, rialzandosi in piedi, “Adesso ho da fare, una stagione da portare in porto. E poi come faccio? …con la bimba che mi nasce a Gennaio…”
Mariella non era d’accordo, ovviamente.
“Come fai a dire una cosa del genere?” le ha domandato lui.
Lei ha scrollato le spalle, con aria saputa.
“Ti pare possibile che mi hanno lasciato a casa solo perché si sono accorti di quella monetina che ho dentro al polmone?”
“Me l’hai raccontato te, no?”
“Che cosa?”
“Delle facce che faceva il dottor La Neve, il medico della Juventus, tutte le volte che ti guardava le lastre!”
“Ma per piacere, Mariella…”
Lei ha scosso la testa, fingendosi spazientita.»
Roberto Franzon: Franzon è l’amico di una vita, il compagno di avventure che Tancredi conosce fin da bambino, ben prima di cominciare a giocare a pallone. Del portiere della Juventus, Franzon è l’esatto opposto: il talento cristallino che a Tancredi non è mai stato riconosciuto, ma anche l’etichetta di perdente appiccicata addosso, mentre l’amico ha sempre indossato le vesti di un predestinato. Ha un carattere solare e uno spirito guascone, nel quale Tancredi riesce sempre a trovare uno stimolo, un contraltare positivo, pure nei momenti difficili, in cui le alterne vicende delle due opposte carriere sembrano quasi volerli dividere.
«La notizia del trasferimento al Potenza in serie B era arrivata poco prima dell’inizio delle vacanze e per Roberto era stata splendida: più vicino a casa, anche se di poco… e molto più vicino alla serie maggiore.
Aveva incrociato Franzon sul lungomare di Crepatura, due giorni prima di partire per il ritiro: camminava sottobraccio con Stefania, la fidanzata, proprio come lui faceva con Mariella.
Si erano fermati a metà del ponticello vicino ai bagni Trieste e sulle prime Roberto non aveva saputo cosa dirgli.
“Non ti si è visto per niente, quest’estate!” aveva deciso di rompere gli indugi Mariella; quel giorno aveva una borsetta di pelle bianca e due scarpine dello stesso colore.
“Eh, no…” aveva bofonchiato Franzon in risposta, “Ai Canottieri quest’Estate non ci sono venuto… La rena di qui è molto più adatta per le sabbiature, sai… Me l’ha detto il dottor Scaglietti.”
A Roberto non era riuscito di rispondere che con un paio di cupi grugniti: si sentiva bloccato, non sapeva dire il perché.
“Sembrava di rivederti in uno specchio” gli avrebbe poi detto Mariella, poco dopo.
“Uno specchio?”
“Ma sì. Avevate tutti e due gli stessi sandali, la stessa polo indosso… e anche la stessa faccia, a dirla tutta.”
Era la faccia di chi avrebbe tante cose da dire ma proprio non ci riesce, aveva detto lei; Roberto, però, credeva di avere visto qualcosa di più sulla faccia di Franzon: non la delusione o la tristezza che si sarebbe aspettato, solo contentezza e sincero affetto.
“E insomma… come ti va?” era riuscito finalmente a domandare al vecchio amico.
“Eh… come al solito” aveva risposto quello, sorridendo, “…ogni anno si semina, ma mica per raccogliere l’anno dopo. Si semina per avere qualcosa da seminare di nuovo.”
“Eh sì” aveva convenuto Roberto.
Stava rimuginando su queste cose, ormai sulla strada del ritorno, quando Mariella aveva bruscamente cambiato discorso.
“Si sposano, lo sai?” aveva mugugnato.
“Come?”
“Lui e Stefania” aveva precisato, “Si sposano la primavera prossima.”
E mentre diceva così, teneva gli occhi fissi sul selciato, il viso pensieroso, incorniciato dai capelli dorati.
Roberto allora l’aveva presa per mano, rallentando il passo. L’aveva fissata intensamente e poi…»
Fabio Capello: Nel gioco delle parti che segue inevitabile alla scelta di trasformare persone reali in personaggi, a Fabio Capello è toccato il ruolo di ‘cattivo’ del romanzo: la sua espressione perennemente accigliata e il suo ruolo storico di ‘eterno cavallo di ritorno’ fra mondo romanista e mondo juventino hanno facilitato non poco il compito di chi scrive. Fatto sta (e questa non è invenzione ma storia) che è stato proprio lui a causare il grave infortunio che ha strocato la carriera di Tancredi.
Adesso sì che la stampa l’avrebbe impallinato e poco importava che la Juve riuscisse a qualificarsi alla semifinale. L’avrebbero crocifisso di sicuro, ancora peggio che dopo la partita col Bologna.
Perani, che si era appena stirato e stava uscendo dal campo, aveva fatto partire un tiraccio che somigliava più a un gesto di stizza che a una conclusione vera e propria; la palla era rimbalzata in mezzo a una selva di calzettoni bianconeri e Roberto, già in tuffo, si era visto scavalcato da una parabola maligna.
Bologna uno, Juventus zero. Gli toccava tornare a casa con quel risultato, con quella colpa cucita addosso.
“L’hai toccata te!” aveva sbraitato, affrontando Capello a muso duro, negli spogliatoi.
Il centrocampista friulano gli aveva risposto con uno dei suoi sguardi taglienti, ma non aveva detto nulla, non aveva nemmeno cambiato espressione.
“Lo devi dire, Fabio… quella palla l’hai deviata te?”
Come se questo potesse cancellare il gol subito.
Capello aveva ridacchiato, lanciandogli un’occhiata di scherno.
“Come sarebbe a dire ‘deviata tè’?” aveva mugugnato, scimmiottando l’inflessione toscana: “Non dire cretinate, Fred.”
Per riportare la calma c’era voluto l’intervento di Furino, a fare da paciere.
Sul treno, durante il viaggio di ritorno, la tensione era palpabile; tra compagni continuavano a scambiarsi occhiate nervose e dentro il vagone non volava una mosca. Tutti zitti e immobili. Tutti a parte Picchi.
L’allenatore continuava a camminare avanti e indietro lungo il corridoio, la faccia contratta in una smorfia di dolore.
“Cosa fa, mister?” gli aveva domandato Morini, “Non si viene a sedere?”
“Non ce la faccio” aveva risposto lui, “La schiena mi fa un male tremendo… Non riesco nemmeno a stare fermo.”
Lo avevano ricoverato il giorno dopo, ma nessuno in squadra conosceva i dettagli, nessuno aveva detto loro mezza parola al riguardo.»
Gianluca Congiu e il figlio: Unici personaggi di fantasia del romanzo, sono i due sventurati turisti capitati nel bar di Tancredi durante un violento acquazzone e hanno lo scopo precipuo di ‘traghettare’ il lettore all’interno della trama. Il padre, Gianluca, ha un passato da tiepido tifoso, capace di infiammarsi solo in occasione di eventi epocali come i mondiali dell’ 82… esattamente come la maggior parte di noi comuni mortali, italiani medi schiavi di un rito, quello pallonaro, di cui effettivamente conosciamo ben poco… ma che ogni volta riesce a trascinarci agli estremi parossistici di un’isteria di massa.
«Roberto si ferma di fronte al bancone e si volta ad aspettare il turista fiorentino con cui ha trascorso buona parte della mattinata.
La luce che filtra dalle vetrate è talmente intensa che Gianluca è costretto a ripararsi gli occhi.
Oltre il portico adesso è Estate piena e frotte di villeggianti sciamano distratti in mezzo alla provinciale, con borse e ombrelloni fra le mani e abiti sgargianti indosso.
Per strada è tutto un correre e gridare, uno strombazzare di macchine in coda, quasi che il freddo e l’acqua del primo mattino non fossero stati nient’altro che un sogno.
“…e decise di andare in pensione?” domanda il Fiorentino.
“Proprio così” risponde Roberto, ballonzolando inquieto.
“…e si è ritirato in questo modo? Dalla sera alla mattina?”
La risposta è un frettoloso cenno di assenso, ma Gianluca non riesce a crederci: abbandonare il calcio di colpo, dopo cinquant’anni di gioie, amarezze, trionfi, sconfitte… Cinquant’anni di malattia, come l’ha definita Roberto.
“Sì, insomma, pressappoco così…” corregge il tiro il vecchio portiere, che deve avere intuito la perplessità del proprio ospite.
Fuori dal bar, un clacson risuona cinque volte, in quello che ha tutta l’aria di un richiamo convenuto.
“Diciamo che, per prendere quella benedetta decisione, un altro paio di annetti ce li avrei messi, ecco… Però la svolta è stata proprio in quel momento lì, diciassette maggio del duemilatré, la trasferta di Cosenza. Quel collassetto che…”
Gianluca rimane imbambolato, per niente convinto dalle parole che ha appena sentito; come a volergli dare conferma, Francesco, il figlio di Roberto, mezzo nascosto dalla vetrinetta della pasticceria, ridacchia sornione al suo indirizzo.
Lo stesso clacson di prima risuona una seconda volta e un uomo sulla settantina scende dalla macchina e lancia un grido verso l’interno del bar.
“Oh, Pasèro! Ti muovi?! I saraghi non aspettano mica noi!”
Ha ancora un fisico asciutto e nervoso, il viso scuro incorniciato da folti capelli bianchi.
“Facciamo così” bofonchia Roberto, riscuotendosi. “Tanto lei è qui in vacanza, no? Perché non torna a trovarmi una di queste mattine? Così le racconto come è andata a finire la storia.”
Non lascia a Gianluca il tempo di rispondere e si fionda fuori dalla porta, scendendo gli scalini tre per volta.»
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