Diretto da Edoardo Ponti, La vita davanti a sé è disponibile su Netflix. Nel cast una sempre meravigliosa Sophia Lorèn, fresca di David di Donatello per la sua interpretazione di Madame Rosa, Ibrahima Gueye, Renato Carpentieri, Abril Zamora.
Bari vecchia, crocevia di etnie e di culture. Mohammed detto Momò ha 12 anni ed è immigrato in Italia dal Senegal con la mamma quando era piccolo. Ma sua madre è morta e Momò viene affidato ad un medico, il dottor Cohen, che non sa come prendersi cura di lui. Un giorno Momò borseggia al mercato una donna anziana, Madame Rosà, rubandole due candelabri d'argento, ma il dottor Cohen lo scopre e gli chiede di riportare il maltolto a quella signora che conosce da anni. E approfitta per chiedere a Rosà di accogliere Momò in casa sua, insieme ai figli delle prostitute di cui la donna è stata un tempo collega. È l'inizio di una convivenza travagliata, in cui c'è in gioco la reciproca fiducia fra un'anziana che ne ha passate tante e un ragazzino che non crede più a nessuno.
Il suo piccolo protagonista è
Momò (Ibrahima Gueye), orfano che viene accudito da Madame Rosa (Sophia Lorèn),
una ex prostituta sopravvissuta all’Olocausto che ospita presso la sua casa nel
quartiere multietnico parigino di Belleville bambini senza famiglia. Si tratta
di figli di prostitute, che non possono tenere con sé i bambini. Però la storia
di Momò è leggermente diversa, perché lui è orfano, e ha bisogno di qualcuno. Un carattere
ribelle, nel gruppo è il più difficile da gestire, con un atteggiamento
scontroso verso gli altri e verso la vita stessa. La Madame si presenta come un
personaggio forte, sicuro, che riesce a sopravvivere grazie al profitto
ottenuto dall’ospitalità di questi bambini. Andando avanti nella storia, però,
ci accorgiamo che i due personaggi non sono davvero così: Rosa ha bisogno di
affetto, così come Momò, che si rivela essere semplicemente curioso e con tanta
voglia di vivere.
Ci sono degli elementi che danno un valore aggiunto al film, come la presenza della bicicletta utilizzata da Momò, simbolo di spensieratezza e umiltà, rappresentante di un qualcosa di genuino e, allo stesso tempo, inno alla voglia di vivere e girare il mondo. E le cuffie, quelle vere, quelle di una volta, non gli auricolari senza personalità di oggi. C’è un piccolo omaggio a un tempo passato, alla semplicità di cui abbiamo nostalgia, in cui tutto era – o almeno sembrava – più giusto, più bello, più sincero. Quest’atmosfera si ritrova nel film, i personaggi apparentemente complicati si spogliano poi delle loro corazze, rivelando loro stessi per ciò che sono, nella loro fragilità.
E poi c’è un grande tema di fondo: l’importanza di non abbandonare nessuno. Troppo spesso qualcosa, o qualcuno, appare troppo difficile da “sistemare”, e così si rinuncia. Niente di più sbagliato. Ci vuole pazienza, costanza, amore, e alla fine ne sarà valsa la pena. Così come insegna il personaggio di Hamil (Babak Karimi), che nella sua bottega ha un tappeto persiano di grande valore da riparare. Con questo gesto, insegna a Momò l’arte della pazienza, l’importanza di andare avanti. Come quel tappeto rimasto lì per tanto tempo, ma mai gettato via. Tra lui e Momò si svolgono dei dialoghi leggeri ma allo stesso tempo importanti sulla vita e sull’amore, in scene delicate e anche commoventi. Leggeri perché le domande sono esposte con l’ingenuità di un bambino; importanti perché i temi che le compongono non sono da poco, soprattutto per un piccolo protagonista come Momò. Il risultato è un film semplice, che scorre piacevolmente, e in gradi di rimane nel cuore a lungo.
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