The Brutalist è al cinema.
Scheda Film
The Brutalist, il film diretto da Brady Corbet, si svolge nell'arco di 30 anni e racconta la vita dell'architetto ebreo László Toth e sua moglie Erzsébet (Adrien Brody e Felicity Jones). Siamo nel 1947 in Ungheria, quando la coppia, sopravvissuta all'olocausto, decide di andare a vivere negli Stati Uniti. Toth è un architetto visionario di grande talento e spera di trovare lavoro oltreoceano, terreno fertile per i suoi progetti. I primi tempi sono duri, la famiglia deve affrontare umiliazione e fame. Il "sogno americano" finalmente si avvera quando incontra il ricco industriale Harrison Lee Van Buren (Guy Pearce) che gli commissiona la realizzazione di un grande monumento modernista. Per László è la sfida più importante della sua carriera. Ma dopo aver raggiunto l'apice, dovrà fare i conti con il rovescio della medaglia.
PARLARE DI ARCHITETTURA E OLOCAUSTO SENZA ESTETICA E CUORE
Partiamo delle due domande che tutti ci stiamo ponendo: László Tóth è realmente esistito? No.
Da dove deriva il titolo The Brutalist? Dalla scuola di architettura Bauhaus - nel film frequentata in passato dal protagonista - e dal Brutalismo, uno stile di costruzione che utilizza grandi blocchi di cemento, componendo opere geometriche e meravigliose nella loro semplicità.
Queste domande sono fondamentali per rispondere a ciò che ho trovato mancante nel film, che - pur essendo ben costruito, a tal punto che le 3 ore e 35 minuti di durata non sono eccessivamente pesanti - il regista Brady Corbet ha confezionato negli anni, dopo una lunga ricerca di finanziamenti. E proprio da qui parto per esporre il mio pensiero sul film: la mancanza di un budget elevato per un film del genere è la prima enorme pecca. Nei giorni passati sono state sollevate non poche polemiche da chi l'architetto lo fa di mestiere. In primis perché l'idea dell'architetto geniale e solitario non esiste (anche se è così che spesso vengono rappresentati nel cinema), e poi perché non vi è alcuna cura mostrata nel film per il reale e difficile processo dietro la progettazione di un edificio. Questo, confermato dalla recente rivolta degli architetti contro il film, è il motivo per cui le mie aspettative riguardo la grandiosità di un lavoro del genere - che richiede genialità, attenzione, una visione ampia di ciò che sarà, bellezza (anche nella semplicità), impegno e armonia tra l'idea, il progetto e la sua realizzazione - non sono state soddisfatte. Non c'è quella scrittura doverosa per un film che ha come principale protagonista l'architettura; sì, il protagonista è László, il suo background - che non viene mostrato, se non nella condizione psicofisica in cui riversa - e il suo desiderio di riscatto, ma essendo il fulcro del suo personaggio il fatto che si tratta di un architetto ebreo sfuggito all'Olocausto e a cui viene data una seconda chance di vita, il protagonista diventa il suo lavoro, la sua passione, il suo tentativo di tornare a creare attraverso le esperienze che lo hanno segnato, dunque l'architettura. Una delle mie principali aspettative era quella di vedere un film in cui la nascita dell'edificio, che viene mostrato con importanza anche nel trailer, fosse attenzionata in ogni particolare; invece, salvo qualche momento dedicato all'idea partita dal ricco industriale Lee Van Buren, alla presentazione del modello, a qualche scena in cantiere e a un viaggio a Carrara per il materiale, non c'è altro. E credetemi, per un film del genere è poco.
Il secondo fattore che mi ha fatto storcere il naso riguarda la fonte di ispirazione del regista, ovvero le storie di emigranti ebrei alla ricerca di un riscatto e alla più personale vicenda di sua madre, anch'ella ebrea emigrante. Non c'è un reale László Tóth, e questo si sente proprio nella sceneggiatura. Non ho percepito un legame particolare tra il regista e l'amore per il lavoro di architetto (le polemiche, pur non essendo io un architetto, mi sembrano infatti molto fondate), né per la bellezza della costruzione di un edificio, né mi è sembrato veritiero il racconto, quanto piuttosto mosso da un desiderio di dire un'altra cosa: noi non siamo eterni, ma le nostre opere lo sono. Costruire qualcosa che sfidi il tempo e il pensiero politico - come viene anche detto in un dialogo tra l'architetto e l'industriale -, così come sottolineare l'impossibilità di cambiare realmente la propria posizione a causa di qualcosa di più potente della coscienza e dell'umanità (ovvero la posizione sociale e la ricchezza), sono i reali intenti del film.
Un'altra delusione è legata alla possibilità mancata di una scenografia imponente ed emozionante. Si tratta di un tipo di architettura che offrirebbe sul grande schermo tante possibilità di affascinare lo spettatore, di una lucentezza del marmo che splenderebbe, di una metratura che permetterebbe un uso della telecamera elegante e interessante. Inoltre, il legame tra la storia personale del protagonista e il monumento da realizzare poteva essere la parte più commovente e più bella da raccontare: un edificio per la comunità, pensato nelle sue forme sulla base di ciò che gli occhi di László hanno visto durante l'Olocausto, sulle torture fisiche e psicologiche, sul senso di claustrofobia, di prigionia, di angoscia, di paura. Come può non esserci tutto questo in un film che ruota attorno a queste tematiche, senza mai approfondirle, ma giusto sfiorandole? Sinceramente, non è possibile che un film che ha già nel nome uno stile di architettura non vinca, fino ad oggi, il premio per la migliore scenografia. Eppure è sensatissimo che non vinca, proprio perché, semplicemente, non c'è nessuna estetica nel film.
Quali sono, se ci sono, i punti forti del film? Sicuramente la recitazione di Adrien Brody e di Guy Pearce - ma non di Felicity Jones -, alcuni dialoghi e (a volte) la fotografia. La regia e il montaggio li ho trovati abbastanza fastidiosi, con continui attacchi sull'asse, scavalcamenti, tagli inutili o frettolosi. Penso che The Brutalist stia vincendo dei premi solamente perché il resto dei film in gara non sono tanto migliori, non è stata un'annata buona per il cinema. Ma per fortuna le critiche, quelle giuste e non fatte solo per il gusto di farlo, vengono sempre fuori dopo l'iniziale entusiasmo (stessa identica cosa successa con Emilia Pérez), perché non si può esaltare qualcosa che non è all'altezza dei veri grandi film. Si deve, invece, parlare di un'opera per ciò che è, con i suoi pregi, limiti e difetti. Tutti i film vanno visti, ma non per questo devono essere sempre e incondizionatamente elevati a capolavori.
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